Le radici e le ali

E’ con grande piacere che vi accolgo nel mio nuovo blog. Dopo tanto tempo, e un lungo congedo che per un po’ mi ha tenuta lontana dalle scene del manga italiano e da voi, torno a scrivere di tecnica del manga come ho sempre fatto.

Ho deciso di inaugurare questo spazio con quello che fu, nel lontano 2005, il primo manifesto del manga italiano. Il post che leggete di seguito l’ho scritto quando anche io ero poco più che un’apprendista, e fu postato nel primo sito in lingua italiana dedicato alla divulgazione della tecnica manga, che ho creato e gestito negli anni 2002-2008 per portare la tecnica – la vera tecnica – alla portata di tutti quelli che desideravano impararla. Quel sito e quel forum per me sono stati per anni una casa, una ragione di vita, e la mia prima cattedra.

Rileggerlo a distanza di sedici anni, due fumetti, altre due specializzazioni, diverse centinaia di allievi, e molti ex allievi sul mercato che producono manga, è emozionante. Molte cose sono cambiate, altre non sono cambiate per nulla, io disegno in full digital e ormai, più che una sorella maggiore, per i futuri mangaka potrei essere una zia, ma il manga italiano che allora potevo solo sognare e teorizzare adesso esiste, e cresce.

Lo posto qui, come buon augurio per il nuovo viaggio nella tecnica che cominciamo assieme a partire da oggi.

“Ci sono due cose che bisognerebbe poter dare ai nostri figli: le radici e le ali”.
Così recita un detto, di autore a me sconosciuto, che rispecchia in pieno lo spirito con cui ho creato j-wings. Anche se per la quasi totalità dei suoi utenti io potrei essere al massimo una cugina, o una sorella maggiore, io sono convinta che ogni giovanissimo aspirante fumettista, per riuscire a creare, abbia bisogno di radici e di ali: laddove le radici sono l’ispirazione, lo spirito di un’opera, e le ali sono la conoscenza che permette di trasformare questa ispirazione in realtà, e proiettarla al di fuori di noi. Per questo l’ho chiamato j-wings. J- abbreviazione di “japanese” è un tipico prefisso usato per definire tutto ciò che è giapponese, o in stile giapponese.

Creando questo sito sono inciampata, più di una volta, nella solita – e secondo me inutile, sterile – polemica: manga sì, manga no. E’ giusto o no per noi italiani definirsi “mangaka”? In questa pagina vi darò la mia posizione sull’argomento.

Per cominciare, da linguista e non da fumettista, farò un’affermazione che forse ad alcuni non piacerà, e che sembrerà in apparente contraddizione con tutto quello che finora ho sostenuto: dal punto di vista linguistico stile manga e manga italiano sono effettivamente, e senza ombra di dubbio, definizioni improprie, per una ragione semplice, e che non ha niente a che vedere con motivazioni stilistiche, preconcetti e simili: manga, in giapponese, altro non è se non la traduzione letterale della parola “fumetto”. È improprio, quindi, utilizzare questa parola per definire uno stile.

Dall’altro lato, ai puristi delle definizioni, faccio però presente che una delle caratteristiche principali delle lingue è quella di non essere statiche, ma evolutive: e di questa dinamica delle lingue fanno parte anche l’assimilazione di parole straniere e il modo in cui una parola arriva a definire, per estensione, altri concetti oltre a quello originario. Manga per l’italiano medio, non è solo il fumetto di origine giapponese: definisce, per estensione, anche l’estetica propria dei fumetti e cartoni giapponesi. Si può discutere di quanto questo sia appropriato, ma ormai la parola è entrata nell’uso collettivo con questo significato. E l’evoluzione di una lingua è determinata in parte anche da ciò che viene detto e scritto ogni giorno dalla massa dei parlanti, tutti i parlanti, non solo una minoranza di puristi. Dall’italiano medio, appunto. Quindi, che ci piaccia o no, fra un po’ la parola “manga” entrerà nel nostro bagaglio linguistico per definire anche la tecnica grafica propria del fumetto nipponico… se già non è così.

Perché dico che questa polemica è sterile e inutile?

E’ un’altra domanda che mi viene rivolta spesso. Lo affermo perché accanirsi tanto attorno ad una definizione non porta a costruire niente. Muove solo un po’ d’aria, ma il risultato, in concreto, qual è?

Secondo me, sono altre le cose a cui si dovrebbe andare a guardare, quando si parla di fumetto con tecnica giapponese disegnato da stranieri. Le definizioni contano poco, ciò che conta è il canone. Vi faccio un esempio a caso, che riguarda proprio una forma d’arte importata dal Giappone: molti ceramisti oggi, in Italia e in Europa, imparano la ceramica raku. Poi la interpretano a modo loro, realizzandoci gli oggetti che vogliono. Ciò non toglie che qualsiasi oggetto si sentano ispirati a creare, la tecnica è la tecnica. E per creare davvero della ceramica che si possa definire raku devono imparare una serie di nozioni proprie di questa tecnica: dagli impasti da utilizzare, ai colori, alle procedure di lavorazione.

Lo stesso vale per i fumetti. Il fumetto “di stile giapponese”, comunque lo vogliamo chiamare, ha un canone, una serie di caratteristiche tecniche che lo contraddistinguono in maniera inequivocabile dal fumetto, realistico o caricaturale, di casa nostra, e da quello ispirato ai comics americani. E chiunque voglia affermare veramente di disegnare “in stile giapponese” deve farci i conti, prendere confidenza con questo canone, con i materiali e le tecniche, e farlo proprio. Altrimenti non può a pieno titolo definirsi “mangaka”. Io stessa ammetto che all’inizio mi ci sono scontrata duramente. E non parlo solo di proporzioni del disegno – quelle, per chi ha assimilato tutti i giorni anime insieme alle merendine sono più familiari o almeno… sembrano – quanto di una serie di dettagli a cui non avevo mai fatto caso, nemmeno durante i miei anni di studio del fumetto tradizionale italiano: il manga ha formati, materiali, un modo di tagliare le vignette completamente diversi dal nostro fumetto. Ma questo non tutti lo sanno, anche fra quelli che affermano di “disegnare manga”.

La verità, che ho imparato a mie spese quando ho deciso di buttarmi totalmente nel mondo del fumetto giapponese, è che darsi una definizione è molto facile. E ancora più facile è polemizzarci attorno criticando il lavoro altrui senza aver mai provato a prendere in mano una matita, un pennino, un retino. A parole siamo tutti bravi. Ma le parole, da sole, e tanto più quando sono messe lì solo per scatenare una flame, non portano nessun frutto. Al contrario, la difficoltà che porta frutto e soddisfazione, è aggiungere a queste parole dei fatti coerenti: imparare, insegnare, incoraggiare, correggere e correggersi. Studiare, tentare, sbagliare, raddrizzare il tiro. Fare sul serio e costruire. In una parola, evolvere.

Essere moderatore e admin di j-wings per me ha voluto dire, prima di tutto, sbattere il muso in prima persona contro questa realtà: rimboccarmi le maniche, indossare una bella veste di umiltà, e rimettere in discussione tutto quello che negli anni della scuola di fumetto mi sembrava una certezza: la certezza di saper disegnare manga. Mi ha richiesto di imparare dalla fonte, dal Giappone, anche a costo di leggere e tradurre dal giapponese fino a farmi venire mal di testa o arrivare in persona fino a Tokyo per studiare, se necessario. Per imparare, per diventare “mangaka” sul serio, per rendere accessibile tutto quello che imparo ogni giorno a tutti, e prima di tutto, ai giovanissimi, che vogliono disegnare in stile giapponese, che avrebbero il talento per farlo, ma troppo spesso finiscono, per mancanza di informazioni, per imparare un canone inesatto e ibrido, e definirsi mangaka pur disegnando qualcosa che con il manga giapponese a prima vista ha una somiglianza, ma se lo guardi bene ha poco o niente in comune.

Perché lo faccio? Per dare a me stessa, e a tutti quelli come me, le “ali” per decollare e trasformare le visioni della nostra mente in carta e inchiostro. Per definirsi mangaka davvero, non importa se per professione, per puro divertimento, o come me, per la passione di una vita. Sarebbe impossibile spiegare in una pagina soltanto il ruolo che il fumetto giappponese ha avuto nella mia vita, e raccontare nello spazio di un post tutti gli innumerevoli tentativi di questa fase di decollo in cui ho dovuto, e devo tuttora, imparare, imparare e imparare. Essere admin e moderatore di j-wings è anche, tutti i giorni, una continua sfida con me stessa, per testare la solidità delle mie radici, e la forza delle mie ali.

Sono una mangaka? No, di sicuro no. Non ho ancora finito di imparare abbastanza per definirmi tale. Spero di non avere mai la superbia di definirmi “una mangaka completa” e pensare di aver finito la mia personale evoluzione. Perché non c’è mai “una fine” all’imparare, e quando si pensa che sia così, è un guaio. Sono semplicemente l’admin di j-wings. Una a cui piace disegnare in stile giapponese, e veder gli altri che fanno altrettanto. Una che a questa passione ha dedicato, dai banchi dell’asilo a quelli dell’università, vent’anni della sua vita. E che vorrebbe continuare a farlo.

Finora ho parlato delle ali: la conoscenza, il sapere, la tecnica. Ma non ho ancora parlato delle radici, e qui si tocca un altro punto dolente della polemica.

Il manga fatto dagli italiani assomiglierà mai veramente a quello fatto dai giapponesi?
La mia risposta è la stessa: sì e no, o meglio… dipende da che punto di vista lo si guarda. Se si tratta della parte grafica, la mia risposta è un sì convinto. A condizione di imparare il canone come si deve, sono convinta che i ragazzi italiani abbiano le potenzialità per disegnare manga perfettamente riusciti.

Se parliamo di storie, invece, la mia risposta è no. Ci assomiglierà come, tanto per fare una metafora efficace, il Natale in Giappone assomiglia al nostro. Siete mai stati a Tokyo sotto Natale? C’è l’albero, ci sono le luci e gli addobbi, c’è Santa Claus… come nel Natale occidentale. Ma l’atmosfera è totalmente diversa, ugualmente attraente ma assolutamente insolita per noi, abituati al nostro “solito” Natale.

Un manga scritto da un occidentale, se è scritto bene, dovrebbe dare un po’ la stessa sensazione di sorpresa e di “uguale-ma-diverso”. Perché in ogni storia degna di nota l’autore mette ciò che pensa e sente su un certo argomento, la sua fantasia, la sua esperienza, la sua personale ispirazione, non storie, sentimenti e personaggi stereotipati e presi a prestito, nella cui genesi ha solo il ruolo passivo di colui che disegna copiando bene tutto, anche la storia. Ciò che nello stile giapponese è importante assimilare bene è il canone tecnico e estetico. Ma la trama del vostro fumetto, è come l’Arcadia di uno dei classici che ho amato di più: la vostra nave siete voi.

Un antico poeta giapponese che apprezzo molto, parlando di poesia e di estetica del waka, esprimeva questa sensazione di uguale-ma-diverso con una frase: prendere ciò che è antico, e dargli un cuore nuovo. La mia filosofia, nell’approccio al fumetto, è abbastanza simile: affondare profondamente le mie radici, in cerca di ispirazione, nella terra da cui provengo, nella mia cultura, nelle storie di tutti i giorni, nell’esperienza personale, nel Giappone che conosco, cioè quello che vedo “dall’esterno” attraverso i miei occhi di straniera, nelle favole della mia infanzia e i miti della nostra tradizione, nell’epica di cui mi sono costruita un bagaglio abbastanza consistente durante l’Università, nelle partite di ruolo. E nel mio sentimento. In tutto ciò che è “antico” e familiare, intessuto della cultura e delle tradizioni che ho respirato fin da bambina, nel mondo che conosco. Ma invece di esprimermi con i mezzi più “tipici” della nostra tradizione, come racconti, poesie, romanzi, o il fumetto più classico, dargli un “cuore” nuovo: una veste grafica giovane e vitale, che viene da lontano, in cui io, e la mia generazione, ci rispecchiamo forse più che nel fumetto tradizionale.

Questo è quello che consiglio anche a voi. A voi, in questo spazio, darò solo un supporto per irrobustire le ali: il supporto della tecnica e dell’esperienza messe assieme nel mio perocorso di studi, della conoscenza acquisita e condivisa, dei tentativi, di tutto quello che ho imparato e imparo, qualche volta assieme a voi mentre ve lo racconto.
Dove e come affondare le vostre radici, dovete deciderlo voi. Ma fate in modo che affondino in un terreno che sia saldo, che sia vostro, che sia unico.

1 commento su “Le radici e le ali”

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